C’era un tempo in cui la Serie A era il centro del mondo, il punto di arrivo di ogni fuoriclasse. In Italia i campioni non arrivavano a fine corsa, ma all’apice. Qui passavano i migliori. Il Pallone d’Oro lo si vedeva allo stadio, ogni domenica. Oggi, quei ricordi sembrano un’istantanea sbiadita. Il giovane talento vola via, appena intravede la vetrina internazionale.
Chi arriva, spesso, lo fa per chiudere il cerchio. Basti pensare ai volti del prossimo campionato: De Bruyne al Napoli, Modrić al Milan, Dzeko nel mirino di Fiorentina e Bologna. Fuoriclasse assoluti, sì. Ma anche uomini la cui clessidra corre e le cui gambe iniziano a rallentare. E allora ci si chiede: l’Italia è ancora una meta per costruire? O è diventata un cimitero degli elefanti?
L’usato sicuro
Quando in Serie A arriva Kevin De Bruyne, uno dei migliori centrocampisti della sua generazione, è impossibile non emozionarsi. Napoli festeggia, i tifosi sognano. Lo stesso vale per Luka Modrić in rossonero, leggenda del Real Madrid. E per Edin Dzeko, che Bologna vorrebbe come guida per i giovani. Tutti nomi che infiammano il pubblico, danno visibilità, alzano il livello tecnico. Ma tutti sopra i 33 anni.
L’anagrafe non è una condanna, sia chiaro. I campioni veri, se motivati, sanno cambiare il destino di una squadra. Lo ha fatto Cristiano Ronaldo alla Juve, lo ha fatto Pedro alla Lazio, lo ha fatto Giroud al Milan. A volte, l’età è solo un numero. Ma il confine è sottile. Quando la motivazione si spegne, la leggenda rischia di diventare zavorra. I casi recenti di Hummels alla Roma o Varane al Como — ritiratosi dopo un infortunio all’esordio — lo dimostrano.
La Serie A sembra aver accettato un ruolo: quello di terra d’accoglienza per fuoriclasse in uscita. Nessuno mette in discussione il valore dei big in arrivo. Chi ha classe può lasciare il segno a qualsiasi età. Il nodo vero, però, è un altro: perchè il nostro campionato non riesce a trattenere i talenti?
Il Milan ha di recente salutato Reijnders. Prima ancora il Napoli aveva lasciato andare Kvaratskhelia. Le squadre italiane hanno un fiuto eccezionale per lo scouting internazionale, pescano bene, formano. Ma appena un giocatore inizia a brillare — che sia a Roma, Milano, o Napoli — le grandi d’Europa bussano. E quando arrivano maxi-offerte da 60 o 70 milioni, non si può dire no. E così la Serie A continua a rivivere il passato, con grande dignità, ma senza più troppa ambizione.
I giovani, quelli veri, crescono altrove
Nel frattempo, il futuro vola via. Nel resto d’Europa esplodono i vari Musiala, Palmer, Doué, Lamine Yamal. E in Italia? Parliamo ancora di “progetti giovani”, ma non ne vediamo i frutti. Un 24enne come Lucca viene ancora etichettato come “prospetto”, mentre in altri campionati sarebbe considerato un prodotto fatto e finito. E così i nostri migliori talenti crescono, ma altrove. O peggio: si spengono in panchina.
La Serie A non è solo meno attrattiva: è meno coraggiosa. I club italiani preferiscono il passo sicuro del veterano alla scommessa sul talento da formare. Eppure, il tempo non aspetta. L’Europa corre, e corre veloce. Le finali europee lo dicono chiaramente: chi vince, oggi, ha gamba, intensità, verticalità. E chi si affida troppo all’esperienza, alla lunga… crolla.
La verità è che non serve essere giovani o vecchi. Conta essere bravi. Accogliere i campioni al tramonto non è un male in sé, ma non può essere l’unica strategia. Servono investimenti, fiducia, visione. E sì, anche errori. Perché chi cresce sbaglia, ma alla fine costruisce. Perché se continuiamo ad applaudire solo chi ha già vinto altrove, non costruiremo mai chi potrà vincere qui.