L’amore e l’odio, si sa, sono due facce della stessa medaglia, e quando si parla di Artem Dovbyk il dibattito diventa una guerra ideologica, un eterno derby di sensazioni contrastanti. C’è chi lo difende a spada tratta, chi lo considera un elemento imprescindibile, un centravanti che non si vede ma si sente, che non sempre brilla ma che, come a Cagliari, decide la partita con una zampata d’autore. E poi ci sono gli altri, quelli che proprio non riescono ad amarlo, che ne osservano i movimenti con lo stesso scetticismo di chi guarda un illusionista troppo inesperto per ingannare davvero il pubblico. Anche quando segna, anche quando il tabellino dice che è stato lui a regalare i tre punti, il cuore non si scalda.
Forse è colpa della sua natura silenziosa, della sua tendenza a nascondersi tra le linee senza mai dare l’impressione di volerle spezzare con la ferocia di un gladiatore. O forse semplicemente Roma è una città che ha bisogno di eroi, di uomini carismatici, di quelli che trasformano ogni giocata in un’epica battaglia. Dovbyk, invece, è un fantasma operoso, un operaio d’élite del gol, ma senza il carisma dei grandi attaccanti del passato. Un enigma che divide l’Olimpico, tra chi lo aspetta e chi lo ha già archiviato.
E poi c’è lui. Mile Svilar. Un portiere che, se fosse nato in un’altra epoca, avrebbe ispirato poemi cavallereschi. Ancora una volta il migliore in campo, ancora una volta il protagonista silenzioso di una Roma che troppo spesso si affida alla sua voce interiore per restare in piedi. L’oracolo belga-serbo ha preso l’abitudine di salvare partite e stagioni con la naturalezza di chi sa che il destino lo ha messo lì per quello, per tenere in vita una squadra che senza di lui, probabilmente, avrebbe salutato certe ambizioni già da un pezzo. Dopo l’arrivo di Ranieri è diventato ancora più decisivo, come se bastasse la sola presenza del tecnico romano a far emergere la sua aurea da condottiero della porta.
E in tutto questo, il popolo romanista continua a essere il dodicesimo uomo in campo. Lo ha dimostrato ancora una volta nell’ultima partita, quando l’Olimpico ha capito il momento di difficoltà della squadra dopo l’eliminazione europea contro l’Athletic Club e ha risposto con un sostegno incondizionato. Lo stesso Ranieri, in conferenza stampa, ha voluto ringraziare i tifosi per non aver mai smesso di credere e di cantare, per aver spinto la squadra anche quando le gambe sembravano non reggere più.
L’Olimpico, intanto, si stringe attorno ai suoi umori. È una piazza che chiede spettacolo ma sa amare la sofferenza, che sogna di vincere con il gioco ma si accontenta di vincere comunque, anche con una gara sporca, anche con il solo gol di un attaccante poco amato e le mani sante di un portiere che sembra venuto dal futuro. È così che si costruiscono le stagioni, con il cuore in gola e il fiato sospeso fino all’ultimo minuto. La Roma c’è e ci crede; l’Europa non è più solo un sogno.