C’è un momento preciso, in Atalanta-Roma, in cui il tifoso giallorosso – ma anche l’osservatore neutrale, se esiste – ha sentito un brivido. Non per il rigore, no. Per quello siamo troppo abituati. Il brivido è arrivato quando Sozza è stato richiamato al VAR. Un déjà-vu collettivo: sappiamo già come va a finire. Se lo chiamano, non è per dirgli “Bravo!”. È per suggerirgli: “Guarda che ti sei fidato troppo del tuo occhio umano, meglio fidarsi del replay con la lente tarata a convenienza”.
Il calcio moderno, quello che si riempie la bocca di “giustizia tecnologica”, ha partorito l’ennesima perla: un rigore che c’era ma non c’era, che forse andava dato ma forse no, che in tempo reale sembrava fallo, ma al replay sembrava un abbraccio tra vecchi amici dopo anni di lontananza. Cosce che si sfiorano, ginocchi che si guardano, intenzioni che nessuno potrà mai processare. Eppure la decisione arriva: rigore cancellato. Non resta che lo smarrimento.
Il problema non è nemmeno quel rigore, a ben vedere. È la sensazione di non capire più cosa sia fallo e cosa no, cosa sia un contatto e cosa sia “una teatralità troppo accentuata”, per citare una delle 482 varianti linguistiche con cui si spiegano le scelte arbitrali. Ranieri, uomo mite e lucido, perde la pazienza. Ed è lì che capiamo che davvero qualcosa non va.
Ma la scena più tragicomica va in onda dopo, su DAZN. Luca Marelli, ex arbitro e oggi voce delle moviole, ci offre una prestazione degna del miglior Camaleonte d’Oro: prima dice che non c’è contatto, poi che c’è ma non conta, infine che Sozza ha sbagliato, però era giusto che rivedesse, ma comunque non è rigore perché… perché lo dice lui. Un piccolo capolavoro di auto-smentita progressiva, stile Giano Bifronte con abbonamento alla piattaforma.
E ci viene in mente un’altra partita, un altro rigore, un’altra frase di Marelli: “Il VAR in questi casi non può intervenire”. Ah sì? E perché stavolta ha potuto? Misteri della fede arbitrale.
Ora, si potrebbe parlare del fatto che una vittoria ieri avrebbe portato la Roma a respirare sul collo di Lazio e Juventus, con la possibilità reale – sì, reale – di prendere un posto Champions. Si potrebbe dire che quel rigore, trasformato, avrebbe cambiato l’inerzia, forse il risultato, forse l’umore della squadra. E si potrebbe perfino sussurrare che una Roma in Champions, a scapito della Juventus, non sarebbe proprio il sogno erotico della governance calcistica.
Ma no. Questo non si può dire. Perché poi ci accusano di complottismo, di provincialismo, di dietrologia. Allora restiamo sul pezzo: un rigore dubbio, un VAR impiccione, un ex arbitro che fa il moonwalk dialettico, un regolamento che sembra scritto da Escher, e noi che restiamo qui, a chiederci se il calcio non sia diventato troppo simile a una puntata di Black Mirror.
Nel dubbio, continuiamo a tifare. A sperare. E a sorridere amaramente, quando l’ennesimo “non rigore” ci strappa non la qualificazione, ma l’anima.